Per parlare di donne cooperanti diamo la parola a Clara Bertolini, che ha svolto un’indagine sulle donne in cooperazione che lavorano all’estero. Le interviste a donne cooperanti in varie parti del mondo ci spingono a riflettere su salute fisica e mentale, gestione delle risorse umane e riconoscimento professionale nella vita delle professioniste della cooperazione.
Perchè un’ indagine sulle donne cooperanti?
Terminata la triennale in Scienze Internazionali dello Sviluppo e della Cooperazione a Torino ho trascorso alcuni mesi come volontaria in Somaliland con Terre Solidali Onlus. Ad Hargeisa, oltre ad affrontare le difficoltà proprie del contesto in cui mi trovavo, mi sono resa conto delle complessità che il lavoro di cooperante presenta ovunque.
Ad esempio, nel contesto lavorativo di un progetto di cooperazione all’estero, come quello in cui vivevo,
ho capito quanto alcune mie caratteristiche personali, ovvero essere una giovane donna, bianca, omosessuale e single, potessero avere un impatto, non solo sulla mia esperienza personale in loco, ma anche sulla riuscita stessa del progetto che stavo seguendo.
Le riflessioni che ho fatto allora, mi hanno spinta a modificare e “adattare” alcuni dei miei comportamenti abituali, sia per potermi integrare nella società locale, sia per portare avanti con successo il mio progetto.
Tornata in Italia mi sono iscritta alla magistrale di Peace and Conflict Studies sempre a Torino. Pensando a quello che avevo vissuto in Somaliland, ho deciso di mettere al centro del mio lavoro di tesi la realtà della donna nel contesto di lavoro nella cooperazione internazionale.
La ricerca
Ho intervistato 45 donne italiane che lavorano, o hanno lavorato, nell’ambito di progetti di cooperazione internazionale e/o di ricerca sul campo, spesso in contesti difficili. L’entusiasmo e l’interesse a partecipare delle intervistate, che hanno avuto modo di “prendere la parola” su argomenti poco discussi, mi hanno confermato quanto la cooperazione venga trascurata o fraintesa dall’opinione pubblica. Basta pensare che in Italia spesso i termini “cooperante” e “missionario/volontario” sono usati come sinonimi da stampa e tv.
Le domande (aperte) miravano a comprendere quali sono le maggiori difficoltà e sfide che le donne devono affrontare per riuscire a conciliare vita privata, aspirazioni professionali e vita lavorativa in contesti spesso complessi.
La modalità online delle interviste mi ha permesso di entrare in contatto con persone da tutto il mondo (principalmente Sud America, Africa e Paesi della Lega Araba). Ho intervistato non solo donne cooperanti o ex cooperanti professioniste, ma anche ricercatrici, dottorande, ragazze in servizio civile, per avere un campione più ampio e multiforme.
Inoltre, volevo comprendere se, e come, donne con profili professionali, background accademici ed età differenti, potessero aver sperimentato dinamiche analoghe in contesti locali distinti, in quanto donne.
Si tratta di una professione che, nella maggior parte dei casi, non ha degli orari fissi, e che prevede necessariamente una forte interrelazione tra dinamiche private e sociali. Quindi, nelle domande dell’intervista non c’è una separazione netta tra vita privata e lavorativa.
Alcune domande miravano a capire la percezione personale di ciascuna cooperante rispetto all’esperienza di una professionista in questo settore. Abbiamo considerato le implicazioni dell’essere una donna bianca occidentale nel rapporto con i colleghi uomini, locali ed espatriati, e nelle relazioni con i beneficiari dei progetti.
Altre domande hanno cercato di investigare aspetti più personali, legati al tipo di lavoro svolto. Parliamo di conciliazione di vita privata e vita lavorativa, la gestione della maternità e dei figli, dei rapporti con i propri cari, ma anche episodi di violenza o discriminazioni subiti. Alle intervistate è stato chiesto di interpretare ogni domanda in base al proprio vissuto, raccontando per ogni tema un aneddoto legato a esperienze personali pertinenti.
La salute fisica e mentale delle donne cooperanti
Tutte le donne intervistate hanno dimostrato una grande passione per il lavoro. È emerso che, malgrado i vari aspetti che andrebbero migliorati per una maggiore tutela fisica, mentale e professionale, il lavoro di cooperante si percepisce come molto stimolante e appagante.
Questo sarebbe vero soprattutto per le donne, che in questo ambito sembrano avere più possibilità di crescita professionale rispetto ad altri settori. Tuttavia 37 delle donne intervistate hanno affermato di essere scettiche sulla prospettiva di un lavoro di cooperante a lungo termine.
Il lavoro sul campo in cooperazione può essere, soprattutto all’inizio e nonostante la preparazione pre-partenza, molto disorientante. Molte intervistate hanno affermato di essersi sentite in alcune occasioni impotenti o (eccessivamente) dipendenti da altri a causa della lingua locale o per usi e costumi diversi.
Inoltre, alcune donne hanno raccontato di essere state vittime di violenze fisiche o psicologiche, discriminazioni lavorative palesi da parte di superiori, o di essere state denigrate pubblicamente di fronte ad altri colleghi.
Il contesto locale, caratterizzato spesso da fattori culturali, climatici, sociali e/o economici diversi da quelli europei, spinge il/la cooperante a sperimentare emozioni contrastanti che inevitabilmente influenzano la condotta lavorativa, in positivo o in negativo.
Per questo, bisogna considerare la sfera emotiva e psicologica per comprendere meglio i fattori che influenzano le scelte personali e professionali di chi svolge questo mestiere.
Quando facciamo riferimento alle donne cooperanti, è importante pensare anche alle sfide fisiche che devono affrontare in quanto donne. Ad esempio, la gestione del ciclo mestruale in contesti molto caldi e/o privi di servizi igienico-sanitari adeguati, o l’esperienza di una gravidanza in luoghi privi di assistenza medica e/o ospedaliera, e varie esperienze femminili, spesso trascurate dalle organizzazioni che inviano il loro personale sul campo.
Le donne cooperanti e la gestione delle risorse umane sul campo
Dalle testimonianze raccolte, sembrerebbe che l’interesse degli uffici operativi sia quasi completamente centrato sulla riuscita dei progetti, mettendo la tutela dei propri lavoratori su un piano del tutto secondario.
Al contrario, dare una giusta importanza all’impatto che il luogo in cui si interviene può avere sugli operatori, è estremamente utile per comprendere il tipo di atteggiamento e di comportamento che questi adottano sul campo, e di conseguenza gli effetti che questi hanno sulla riuscita di un progetto o di una ricerca.
La sensazione di sentirsi isolate sul posto di lavoro è diffusa e spinge a sottoporsi a continui confronti per una ricerca di legittimità, che si scontra con pregiudizi impliciti e strutturati, come ad esempio sessismo, razzismo e gerarchie.
Quest’isolamento spesso si estende automaticamente anche alla sfera privata, perché, nella maggior parte dei casi, creare una separazione netta tra luogo di lavoro e spazi abitativi non è facile. Ad esempio, può capitare che l’abitazione e l’ufficio si trovino nello stesso compound, o si conviva con i propri colleghi di lavoro. In entrambi i casi, si tratta di fattori che non solo possono limitare lo sviluppo di altre amicizie e di reti sociali, ma possono anche portare a un progressivo aumento dell’orario di lavoro effettivo e dello stress percepito.
Il riconoscimento professionale
Essere una donna rappresenta ancora, in alcuni contesti, un fattore di discriminazione che porta ad una scarsa legittimità del proprio ruolo.
Sussiste la tendenza a sminuire la professionalità delle donne non solo in base al genere assegnato, ma anche in funzione di altre caratteristiche come l’età, l’aspetto fisico, il desiderio (o meno) di diventare madre, o di essere single.
Per questo motivo, spesso, l’essere una giovane donna bianca, ha posto in molti contesti le cooperanti in una condizione di iniziale difficoltà. La mancanza di riconoscimento del proprio ruolo professionale spinge spesso le donne a sentirsi in dovere di dimostrare di continuo le proprie qualità e guadagnarsi la stima dei colleghi e dei partners.
In contesti locali in cui tradizionalmente la donna subisce forti limitazioni legate ai ruoli di genere, è più difficile che una professionista donna, bianca espatriata, venga accolta con favore e col rispetto riservato a un professionista uomo dello stesso livello. Al contrario le viene riservato un atteggiamento analogo a quello che viene perpetrato nei confronti delle donne locali.
Nonostante questo, tutte le intervistate hanno affermato che durante la loro carriera hanno comunque sempre avuto la percezione di una posizione di privilegio nei confronti della popolazione locale, e ancora di più nei confronti delle colleghe locali.