ReFuse è un’impresa sociale basata a Beirut che crea valore dai rifiuti. Nata da un’idea di Guglielmo Mazzà, ingegnere ambientale, dopo un’esperienza di vita e ricerca in un campo profughi al confine tra Libano e Siria.
Che cos’è ReFuse?
ReFuse è un’impresa sociale che si occupa di rifuti e riciclo, nata in Libano, con un piccolo punto di raccolta di materiali riciclabili nel quartiere di Naba’a a Bourj Hammoud, uno dei più poveri di Beirut, ad alta densità di popolazione, in cui mancano servizi di gestione dei rifiuti e c’è una forte presenza di rifugiati.
Qui vivono rifugiati armeni, che ormai sono cittadini libanesi, rifugiati siriani, rifugiati palestinesi e lavoratori stranieri o migrant workers, che vengono in Libano da Paesi come Etiopia, Eritrea o Filippine ma rimangono spesso vittime del mondo della Kafala, in cui diventano letteralmente proprietà della famiglia per cui lavorano, che ne trattiene il passaporto pagandoli pochissimo.
Si tratta di un modello utilizzato in vari Paesi, che consiste nell’aprire dei punti di raccolta di materiali riciclabili, dove le persone possono portare i loro rifiuti separati, e questi vengono venduti ad aziende del territorio, condividendo gli introiti con la comunità locale. È un sistema di raccolta differenziata con degli incentivi economici, ovviamente relativamente bassi perché corrispondono ad una percentuale del valore di mercato della materia che si va a riciclare.
Abbiamo voluto adottare questo modello perché qui è difficile intervenire in progetti infrastrutturali di grandi dimensioni, ed investire in macchinari, trasporto e cassonetti per la differenziazione. È praticamente impossibile far circolare mezzi di grandi dimensioni per la raccolta in strade molto dense, mentre muovere rifiuti non compattati con piccoli veicoli ha costi di gestione troppo alti. Siamo convinti della necessità di cambiare l’approccio delle persone rispetto alla gestione dei rifiuti. In generale, siamo abituati ad un sistema troppo semplice, che ci educa a gettare via cose nel modo più facile possibile, senza riconoscerne il valore.
Perciò quello che abbiamo provato a fare con ReFuse è tagliare il costo di gestione logistica di raccolta. Invece di fare un giro di raccolta presso tutte le famiglie, apriamo un punto di raccolta e attiriamo le persone, chiedendogli di fare un piccolo sforzo.
Questa richiesta è coerente con l’idea che la gestione dei rifiuti non dovrebbe essere un beneficio, e tutti dovremmo limitare la produzione di rifiuti, attraverso da un lato un’azione di responsabilizzazione e dall’altro il riconoscimento del valore delle materie da riciclare.
Il nostro primo centro di raccolta era un panificio abbandonato, che abbiamo trasformato in questo piccolo negozio in cui abbiamo iniziato a raccogliere materie riciclabili. Da subito abbiamo cominciato a comprare 15 tipi di materie diverse e sviluppato un software per gestire le interazioni con le persone che ci portano i loro rifiuti.
Ogni materia viene pesata e registrata in un “conto corrente di rifiuti”, e quando la persona arriva ad accumulare dei valori tondi, ad esempio 1 dollaro, potrà ritirare il denaro corrispondente.
Abbiamo comprato la prima pressa, che ci consente di ridurre moltissimo il volume delle plastiche e del cartone, e quindi stoccare molti più materiali in questi piccoli negozi che gestiamo, e tagliare drasticamente i costi di trasporto verso le aziende che ricicleranno i materiali.
Il trasporto è la fase del recupero delle materie che costa di più, e che ha l’impatto più negativo sulla municipalità, in termini di traffico ed inquinamento.
Quindi ReFuse si occupa di logistica in realtà, non siamo un’azienda di riciclo, siamo un’azienda che fa logistica all’interno del processo di riciclo, collocandosi a metà tra i cittadini e le industrie.
Com’è nata l’idea di ReFuse?
L’idea di ReFuse è nata durante la mia ricerca tesi. In questo periodo di quattro mesi in un campo profughi, mi sono scontrato con diverse problematiche tecniche ed economiche, che mi hanno portato a ipotizzare un nuovo sistema di gestione dei rifiuti, più adatto al contesto.
Finiti gli esami della mia magistrale in Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio, orientata a progettazione integrata nei contesti di cooperazione internazionale di Trento, ho collaborato con Associazione Microfinanza e sviluppo ONLUS, per supportare dei progetti attivi in Libano di creazione di gruppi di risparmio ed educazione finanziaria dei rifugiati.
Io ho combinato questo lavoro con l’idea di sviluppare una ricerca sulla gestione dei rifiuti in contesti informali, come i campi profughi. In particolare mi interessava capire come in un contesto di crisi umanitaria permanente dovrebbero cambiare gli approcci alla gestione dei rifiuti.
Idealmente in una crisi si accolgono persone in situazione di rifugio per alcuni mesi e con questo orizzonte temporale non ha senso costruire un’intera azienda di gestione di rifiuti. Ma in Libano rifugiati siriani vivono nei campi da circa 12 anni, i rifugiati palestinesi da 70, e nonostante questo non ci sono sistemi di gestione efficaci dei rifiuti in queste strutture, perché l’intero Paese ne è carente.
Io ho vissuto quattro mesi in una tenda in un campo profughi sulle montagne del Libano, a 1.000 m di quota, a 5 km dal confine siriano, analizzando diverse infrastrutture di gestione di rifiuti, di cui una finanziata e gestita da una ONG italiana.
Vivere nel campo è stata un’esperienza umana fortissima, ma mi ha permesso di toccare con mano e comprendere a fondo cosa fare e cosa non fare nei progetti di gestione dei rifiuti, e non solo.
Ho osservato i progetti di cooperazione internazionale attivi, quelli chiusi e falliti, che avevano componenti di gestione dei rifiuti sia all’interno dei campi profughi, sia negli spazi urbani delle municipalità e ho potuto vedere molti casi di mala gestione dei fondi terminati in progetti non sostenibili una volta finiti i finanziamenti e/o non adatti al contesto e alle problematiche vissute dalle persone che vivono qui.
Nella mia tesi ho sviluppato il modello di ReFuse come alternativa alla segregazione delle materie riciclabili, oltre ad una proposta più tecnica di gestione delle materie residue, come combustibile solido secondario, per ora rimasta a livello teorico.
Come avete creato il vostro network di imprese e attirato l’attenzione delle persone?
Tutto è cominciato con la ricerca sul campo, cioè ci siamo messi a seguire i rifiuti, e a parlare con raccoglitori informali, così abbiamo trovato dei piccoli questi centri estremamente informali di gestione dei rifiuti, e abbiamo cominciato a capire a quali aziende poter vendere, quali erano i prezzi per le materie ecc.
Poi abbiamo parlato con associazioni e aziende del territorio che già si occupavano di vendita e abbiamo cominciato a sondare l’interesse per le materie riciclabili che potevamo raccogliere. È bastato poco per arrivare ad aziende più grandi, anche facendo riferimento a studi di settore fatti da enti di cooperazione o da enti locali, e gli abbiamo portato campioni delle materie riciclabili raccolte.
È stato relativamente facile trovare i compratori anche perché noi accettiamo solo rifiuti ben puliti e abbiamo degli operatori che mandano indietro qualsiasi materia che non rispetta i nostri standard, per facilitare il riciclaggio finale da parte delle aziende.
Per quanto riguarda il coinvolgimento dei cittadini, è partito tutto con il passaparola. Poi abbiamo lavorato tanto con associazioni di quartiere, organizzando piccoli eventi o clean-up, sullo stile delle iniziative “Puliamo il mondo” di Legambiente, ma su piccola scala. Associazioni di quartiere e persone già attive nel volontariato che hanno partecipato, hanno poi contribuito a spargere la voce.
La municipalità di Bourj Hammoud dal canto suo, ha accettato e accolto bene le nostre iniziative e oggi stiamo supportando la municipalità di Beirut nella scrittura di tender che lancerà per la creazione di 10 punti di raccolta e gestione dei rifiuti.
Per me l’organizzazione di questo tender e il fatto che quattro startup del territorio hanno cambiato il loro sistema di gestione dei rifiuti, prendendo a modello ReFuse, è una prova che la nostra impresa può funzionare e che può contribuire a migliorare l’intero contesto.
Ritengo di poter dire che ReFuse, nel suo piccolo, ha influenzato positivamente la gestione dei rifiuti a Beirut, per renderla più efficiente, più trasparente, e in grado di coinvolgere molte più persone e imprese locali.
Per il futuro ci piacerebbe poter indirizzare la municipalità a sostenere noi e gli altri servizi di gestione dei rifiuti per permettere di ampliare il raggio d’azione, ad esempio per installare compostiere, poter raccogliere medicinali scaduti e altri tipi di plastiche che non hanno un valore economico, ma possono comunque essere mandate a riciclo altrove.
Perchè ReFuse è un’impresa sociale, che al momento sta rimpiazzando un servizio pubblico non per generare profitto, ma per creare nuovi modelli, conoscenze e sistemi col fine ultimo di riportare questa funzione di raccolta e riciclo reinventata (migliorata e più efficiente) di nuovo all’interno del pubblico.
Poi ci sforziamo di creare una rete, di contribuire alla crescita di tutti gli altri che raccolgono e riutilizzano materie, sia organizzazioni che esistevano da ben prima di noi, che realtà che hanno fatto parte dei nostri stessi programmi di incubazione, per crescere insieme.
Ad esempio forniamo materiali a PlasticLab, un’impresa sociale che crea elementi di arredo e design ed elementi per costruzione e abbiamo formato sulla sicurezza sul lavoro e sulla gestione dei rifiuti e compostaggio una ONG palestinese nel campo profughi di Shatila. stiamo anche ipotizzando possibili investimenti comuni con altre start-up che fanno riciclo del vetro o upcycling di plastiche e multi-materiali, di riciclo di materiali misti carta-plastica per costruire mattoni.
Che consigli daresti a un ingegnere ambientale che si sente incline a un percorso meno convenzionale e vuole mettersi al servizio delle collettività più vulnerabili?
Io consiglio vivamente di non pensare solo alla cooperazione tradizionale, ma pensare a come l’energia, la forza di un giovane ingegnere, un giovane ricercatore, un giovane esperto, si possa trasformare in un’idea di impresa che sopravvive al singolo progetto di cooperazione internazionale.
Quello che facciamo qui con ReFuse per me è innanzitutto un incubatore di idee. La cooperazione può supportare quello che facciamo, infatti noi siamo un’impresa libanese registrata che riceve fondi in progetti di cooperazione, che supportano imprese sociali.
Il modello dell’impresa sociale è un modello che può veramente avere un impatto, se riesce a spodestare modelli di imprenditoria tradizionali, che invece spesso sono proprio la causa dei problemi dei cittadini. Il mio consiglio è di esplorare un mondo nuovo, che non è quello della cooperazione pura, ma che è quello dell’impresa, perché impresa può voler dire impatto e può voler dire etica.
Credo fermamente che con una buona etica imprenditoriale e con spirito di iniziativa, si possano costruire idee di impresa, poi scalabili e replicabili in tanti contesti del mondo, in modo economicamente più efficiente e più agile di quanto faccia molta cooperazione internazionale.