Parliamo ancora di donne cooperanti con Clara Bertolini, che ha svolto un’indagine sulle donne in cooperazione che lavorano all’estero. Essere donna in cooperazione può dare un vantaggio sul lavoro? Quali sono invece gli ostacoli aggiuntivi legati all’essere donna in questo contesto? Sicurezza e precarietà gravano maggiormente sulle donne?
L’essere donna può comportare dei vantaggi all’interno dei progetti?
40 delle donne intervistate hanno affermato con sicurezza che l’essere donna ha facilitato la riuscita di un progetto. Bisogna specificare che tra queste, la quasi totalità si riferiva a progetti rivolti specificatamente a donne.
Le intervistate hanno riconosciuto che proprio il trovarsi in contesti con ruoli di genere più rigidi e una separazione quotidiana più forte tra spazi per le donne e spazi per gli uomini, permette a una cooperante donna l’accesso alle fasce più marginalizzate della popolazioni. Non è possibile quindi concludere se realmente tra le donne esista una maggiore capacità di dialogo con i beneficiari, o semplicemente si siano sfruttati degli spazi derivanti dalle divisioni tipiche delle società patriarcali.
In questo senso, la totalità delle intervistate ha avuto la sensazione di essere stata facilitata nell’abbattere rapidamente le barriere che esistono generalmente tra beneficiari e operatori.
Spesso la condivisione di determinate caratteristiche fisiche specifiche e di possibili difficoltà comuni, come avere il ciclo o gestire una maternità, ha facilitato l’instaurarsi di un rapporto di fiducia e di conseguenza di un dialogo più sereno.
Non è facile comprendere se sia a causa di caratteristiche personali soggettive o dell’essere donna in sé, tuttavia la percezione di aver rivestito un ruolo rilevante per la riuscita di un progetto è diffusa, soprattutto nei progetti che vedono coinvolti minori e/o donne.
La sicurezza
Nelle interviste abbiamo parlato anche di sicurezza. Esistono delle norme che tutelano l’incolumità dei cooperanti, ma manca una dimensione giuridica salda e chiara. Soprattutto, non esiste un sindacato di cooperanti, che possa portare avanti le segnalazioni e le richieste di chi lavora sul campo.
Le misure esistenti, relative alla sicurezza dei lavoratori della cooperazione, si riferiscono esclusivamente all’incolumità fisica del personale, escludendo totalmente la sfera psicologica. Dalle interviste è emerso inoltre, che non sempre viene fatto un corso di formazione adeguato prima della partenza. Spesso i corsi sono stati descritti come antiquati, e inquadrati in sistemi di sicurezza che non rispecchiano più le esigenze attuali.
Rispetto al tema delle violenze fisiche o psicologiche sul posto di lavoro è emerso che in contesti di lavoro dove esiste un migliore equilibrio tra personale maschile e femminile, si registrano meno episodi.
Delle 5 intervistate che hanno raccontato episodi di violenza, 4 sono stati opera dei propri colleghi. Una di queste donne ha oltretutto, raccontato che, l’abuso fisico era stato preceduto da segnalazioni di malessere ed insicurezza presentate al proprio referente, che ha sottostimato la situazione. La donna in questione ha anche affermato di aver poi ricevuto molte più espressioni di solidarietà da parte delle colleghe donne, che dai colleghi uomini.
I fattori che incidono maggiormente sono il contesto in cui si lavora e l’ente con cui si collabora, per quanto infatti possano esserci delle propensioni caratteriali verso determinati comportamenti, se non è presente un supporto da parte dei colleghi, il lavoro sul campo risulta difficile e pericoloso.
In generale, nei casi in cui le organizzazioni hanno offerto ai loro dipendenti un supporto psicologico, questo è stato accolto positivamente e ha avuto un impatto molto positivo sulla vita della donna cooperante. Questo tipo di supporto, offerto sul campo ma anche alle cooperanti quelle rientrate in Italia, potrebbe essere una valida soluzione a tutte quelle situazioni di burnout che colpiscono molti degli operatori del settore, a prescindere dal genere d’appartenenza.
Le donne intervistate che hanno avuto la possibilità di accedere a questo servizio hanno affermato che l’impatto positivo è stato notevole, parlare con uno psicologo ha aiutato a combattere la solitudine provata in contesti lavorativi e sociali distanti da quelli a cui erano abituate.
Donne cooperanti e precarietà
Sembra che con l’avanzare dell’età, aumentino proporzionalmente le difficoltà di seguire progetti sul campo. Ragioni legati a problematiche e insicurezze fisiche, mentali e relazionali spingono spesso a prediligere un rientro in patria verso i 30-35 anni. Tra questi un fattore molto incisivo è la nascita di un figlio, anche se si tratta di un dato rilevabile anche in altri contesti lavorativi.
La maternità è sicuramente stato il tema più dibattuto all’interno di tutte le interviste. I contratti tendenzialmente seguono la durata del progetto, mai superiore ai 3 anni, e questo fattore incide notevolmente sulle scelte individuali. Questo è vero soprattutto per le donne che desiderano avere dei figli.
Alla scarsa tutela contrattuale tipica del settore, si aggiungono elementi che pesano esclusivamente o maggiormente sulle donne. Parliamo della difficile gestione del tempo tra lavoro e figli, l’impossibilità di garantire l’allattamento ai figli neonati, o di partire con la famiglia, le difficoltà per garantire un’istruzione di qualità ai propri figli, o di accedere a strutture medico sanitare adeguate per il controllo della gravidanza. Per non parlare di declassamento professionale, dell’impossibilità di rivestire una determinata carica e fare carriera, la difficoltà nel reinserimento lavorativo dopo il parto.
Sono stati riportati casi di situazioni molto contradditorie, in cui l’organizzazione lavora in difesa di una serie di diritti e all’insegna di valori che poi non si rispecchiano nel trattamento riservato al personale. Una professionista intervistata ha raccontato che nonostante lavorasse in un progetto che si occupava di tutela della maternità, all’arrivo del suo primo figlio le venne negata la possibilità di allattare il neonato fino ai 6 mesi.
Diverse intervistate hanno affermato di considerare il rientro in Italia, o comunque in Europa, per poter accedere a sussidi per la maternità maggiori e più sicuri. Nessuna donna vorrebbe sospendere il proprio lavoro per crearsi una famiglia, ma molte affermano che è l’unica possibilità concreta per chi desidera essere madre.
Riflessioni
Dalla ricerca, emerge che le principali problematiche vissute dalle donne cooperanti sono legate a due ambiti: la precarietà del tipo di lavoro e la sicurezza che questo garantisce. Alcune difficoltà sono prettamente legate all’ambito della cooperazione, come per esempio il tipo di contratto che viene proposto e quali tipo di tutele offre, mentre altre sono connesse in modo più evidente a stereotipi legati al genere.
In alcune circostanze la sensazione di sentirsi isolate e poco valorizzate dal proprio ente ha spinto le donne a prediligere un rientro in patria piuttosto che continuare a lavorare in loco. Questa esperienza è ancora più evidente quando si affronta la maternità, dal momento che i contratti a progetto, tipici della cooperazione, raramente prevedono un periodo di congedo per la maternità e la paternità.
Non è possibile, però, affermare che nella cooperazione internazionale avvengano maggiori discriminazioni rispetto ad altri ambiti. La maternità e le attività di cura rappresentano per le donne italiane uno dei maggiori ostacoli per l’accesso a posizioni lavorative più stabili o per il mantenimento della posizione professionale raggiunta.
Quello della cooperante è un lavoro che richiede un grosso investimento di tempo ed energie, fisiche e mentali, che richiede grandi capacità di adattamento e difficoltà nella conciliazione tra vita privata e vita lavorativa.
Vivere lontano dai propri cari e stare a stretto contatto con situazioni di disagio e/o sofferenza, carica questo lavoro di uno stress fisico ed emotivo notevole, fattori che possono spingere le donne (in particolare) a prediligere un cambio di professione.
Tra le esperienze riportate, sono diverse le donne che dopo anni di cooperazione hanno preferito tornare in patria perché stanche dello stile di vita dovuto al loro lavoro. Questo tipo di comportamento diffuso fa pensare che il lavoro sul campo, caratterizzato da fattori intrinsechi di precarietà, si presenti come un lavoro a tempo determinato, che con l’arrivo dei figli o con l’avanzamento dell’età, non sembra essere più percorribile.
Proposte
L’impatto che il contesto d’intervento può avere sulla sfera emotiva della donna è un elemento che deve essere tenuto in considerazione. Dalle risposte ottenute possiamo affermare che la possibilità di accedere a un supporto psicologico gratuito offerto di datori di lavoro, migliorerebbe in modo sostanzioso l’esperienza di vita nel nuovo contesto in cui ci si trova ad operare.
Implementare politiche che favoriscono il lavoro a distanza, fornire più congedi maternità e paternità, offrire la possibilità di rientrare in patria più spesso, rappresentano solo alcune delle soluzioni proposte dalle intervistate al fine di migliorare la condizione delle donne all’interno della cooperazione e garantire alle generazioni future una maggiore stabilità.
L’implementazione di tavoli di confronti più inclusivi e politiche più ampie di tutela dei/delle cooperanti potrebbero favorire non solo una maggiore continuità lavorativa del personale espatriato ma anche un miglior rapporto con i beneficiari locali e, di conseguenza, una migliore riuscita dei progetti.