Avevi mai pensato ai legami tra architettura e cooperazione, progettazione partecipata, urbanistica e sviluppo? Ne parliamo con Federico Monica, architetto e urbanista specializzato in progetti in Africa Subsahariana e consulente per ONG e organismi internazionali con lo studio di progettazione Taxi Brousse.
Tu sei architetto, come ti sei avvicinato al mondo della cooperazione?
Il mio percorso nella cooperazione è iniziato durante l’università, nei primi anni di architettura ho fatto un campo di volontariato in Africa, precisamente in Sierra Leone. Mi sono appassionato a questo Paese e ci sono tornato più volte in seguito, sempre da studente. Ho deciso infine di dedicare la mia tesi di laurea a questo Paese e anche il mio percorso nell’ambito della ricerca è rimasto legato al continente africano.
I lavori come architetto e urbanista in Africa sono cominciati come un’attività secondaria, che si aggiungeva ad un lavoro più tradizionale in uno studio di ingegneria in Italia, che si focalizzava su grandi infrastrutture.
Ai progetti con la cooperazione dedicavo il mio tempo libero, ma poi a poco a poco ho deciso di mettermi in proprio fondando TaxiBrousse con un mio collega ed amico, e dedicarmi completamente ai progetti per la cooperazione e oggi non faccio più l’architetto “tradizionale” in Italia.
Ho però progetti paralleli e vicini ai progetti in Africa, ad esempio nel mondo della scuola o con ricerche e studi su immagini satellitari di supporto a progetti di sviluppo, con PlaceMarks Africa.
Fare tante cose diverse ma legate da un filo comune aiuta ad affrontare la natura ondivaga di questo settore, dà continuamente nuove fonti di ispirazione ed aiuta a crescere professionalmente.
Cos’è Taxi Brousse e com’è nata?
I taxi-brousse sono i pulmini pieni di cose che collegano un villaggio all’altro nei Paesi africani. Taxi Brousse è nata come un progetto di volontariato, poi si è strutturata in collaborazione con l’altro fondatore, Roberto Curzio, un ingegnere con tante esperienze di lavoro come cooperante in diversi Paesi africani.
Forti delle esperienze nel continente, abbiamo deciso di proporci come esperti per progetti di sviluppo locale, mettendo in atto strategie e soluzioni adatte al contesto, che abbiamo appreso e sviluppato sul campo.
Non è facile fare questo tipo di lavoro, perché anche se l’interesse per la realizzazione di opere ed infrastrutture è forte nelle organizzazioni che lavorano in Africa, è difficile andare oltre il tema esclusivamente tecnico.
Ovvero il tempo e gli approcci dedicati alla fase di progettazione sono di solito piuttosto limitati, anche perchè di solito nei tipici bandi per progetti di sviluppo, non c’è quasi mai una linea di finanziamento per la progettazione di interventi e questa fase che è fondamentale, viene spesso data per scontata, senza poterci dedicare la giusta attenzione.
Si parla tanto di sostenibilità ambientale e nuove tecnologie, tu cosa vedi dal tuo punto di osservazione?
Vedo che si sta aprendo un nuovo canale, con una maggiore consapevolezza e attenzione per le tecnologie rinnovabili. Ma c’è anche un rischio di ritrovarsi con due contesti separati che non comunicano: un contesto tecnico, che ha delle dinamiche molto codificate e molto basate su quello che succede nei Paesi occidentali e i contesti di cooperazione, dove in certi casi diventa molto complicato applicare dei progetti standard come quelli che realizzeremmo in Italia, ed è proprio in queste situazioni che con TaxiBrousse cerchiamo di fare la differenza.
Noi ad esempio inizialmente ci siamo specializzati su progetti a bassissimo budget, progetti che con strutture molto elementari offrano comunque servizi di buona qualità. Mi riferisco a progetti tecnici, che però hanno un’attenzione all’urbanistica e al contesto locale.
Ad esempio se costruisci un pozzo, devi considerare attentamente dove posizionarlo, sapendo che in certi contesti un pozzo diventa un luogo sociale, un luogo di incontro, frequentato come una piazza di un paese, quindi è necessario pensarlo non solo come un’infrastruttura ma come uno spazio pubblico.
Inoltre in tanti contesti africani, bisogna progettare gli interventi considerando l’informalità, come nel caso degli slums, su cui ho lavorato molto come ricercatore.
Pensi che la cooperazione dia spazio ai temi dell’urbanistica e della pianificazione partecipata?
L’urbanistica è un tema difficile e non viene approfondita da molti, anche perchè non tutte le organizzazioni possono permettersi di avere uffici tecnici dedicati. C’è stata invece una grande crescita negli ultimi anni a livello di interesse e pratiche di pianificazione partecipata. Oggi la necessità di garantire la partecipazione delle comunità locali è data quasi per scontata.
Purtroppo esiste un problema tipico di incompatibilità tra i tempi della partecipazione e i tempi dei bandi di progetto, perché una partecipazione fruttuosa, per forza di cose è un processo abbastanza lento, che richiederebbe tanti incontri e momenti di condivisione per ridefinire ogni progetto.
I bandi dal canto loro, spesso ti chiedono di presentare già un progetto e poi di promuovere la partecipazione della popolazione, ma di fatto in questo modo gli spazi per la ridefinizione o rinegoziazione del progetto rimangono molto limitati.
Sono due sistemi che stanno cercando di interfacciarsi, ma non è facilissimo perché si fa fatica a “farli parlare”.
Sicuramente ora c’è più consapevolezza, ma resta un problema organizzativo, ovvero come creare delle nuove modalità più flessibili di quelle da bando, per permettere di coinvolgere le comunità, in una forma più attiva. Una risposta è lavorare molto sulla partecipazione a monte, prima di presentare una proposta in risposta a un bando.
Bisogna considerare che in ambito urbano in Africa è molto difficile lavorare sul piano urbanistico a livello organizzativo, perchè è complicato capire chi ha le competenze e quindi con chi interfacciarsi, comune, ministeri, enti privati che gestiscono acqua o energia elettrica, ecc. Di solito le organizzazioni che riescono a districarsi in questo panorama complesso sono le organizzazioni più grandi e strutturate.
Poi è necessario considerare che per intervenire in slums o quartieri considerati abusivi è necessario ottenere il supporto delle istituzioni locali, permessi, ecc-
Tutto questo richiede dei tempi molto lunghi, processi e negoziazioni faticose, e tante organizzazioni fanno molta fatica a lanciarsi in progetti di questo tipo proprio per queste difficoltà intrinseche.
Nonostante tutto questo, sempre più organizzazioni fanno interventi urbani, soprattutto attraverso piccoli interventi, ad esempio la creazione di orti urbani o la collocazione di fontane o bagni pubblici, che senza essere grosse infrastrutture, possono avere un impatto positivo notevole in certi quartieri.
In ambito rurale, è di solito un pò più semplice intervenire perché gli interlocutori sono meglio identificati, ma allo stesso tempo si possono avere difficoltà logistiche importanti, ad esempio trovarsi ad operare in posti dove non c’è stabilmente la corrente elettrica.
Qual è per te l’importanza degli interventi di architettura e urbanistica in contesti difficili come gli slums?
È molto importante da tanti punti di vista. Ad esempio a livello simbolico è importante far vedere a chi vive lì, che si fa qualcosa in questi contesti che di solito sono magari dimenticati ed esclusi. Si tratta di creare incentivi a migliorare l’ambiente in cui si vive.
In ogni intervento bisogna assicurarsi di non rompere gli equilibri esistenti, che permettono la sopravvivenza delle persone. Per questo è consigliabile fare piccoli interventi, e poi magari diversi piccoli interventi messi insieme possono con un effetto a catena migliorare sensibilmente la vita in questi luoghi.
Ad esempio in contesti di progetti di gestione dei rifiuti si potrebbe pensare a sistemi complessi per eliminare i rifiuti, ma allo stesso tempo si possono creare problemi sociali gravi perché si toglie lavoro a chi quei rifiuti li raccoglie. Molto meglio includere questi lavoratori informali del riciclo e formarli per includerli in un nuovo processo di gestione dei rifiuti più efficiente, assicurandosi che l’introduzione ad esempio di nuove tecnologie non metta a rischio un fragile equilibrio socio-economico.
Tecnologia e sostenibilità ambientale e sostenibilità sociale devono andare di pari passo. La sostenibilità ambientale non può essere una priorità assoluta, a discapito della sussistenza, della sopravvivenza delle persone che vivono in un territorio in condizioni di indigenza.
È importantissimo lavorare in parallelo sui due aspetti e decostruire i nostri modi di ragionare, per poterli collegare un pò di più a quelli delle persone che vivono lì.
Cosa possiamo imparare in Europa dalle esperienze di urbanistica nella cooperazione allo sviluppo in Africa?
Ritengo che potremmo imparare molte cose dalle città africane o dai progetti di cooperazione o anche dai quartieri informali o slums, invece di pensarci sempre come quelli che hanno le soluzioni. Guardarci intorno e vedere come si vive dalle altre parti del mondo può essere utile ed interessante ed istruttivo per il futuro.
Ad esempio si può notare in certe aree in Africa una leggerezza dell’ambiente costruito, mentre noi in Europa siamo abituati ad avere delle città solide, delle infrastrutture forti che ci difendono dagli agenti atmosferici e dalle calamità naturali, ma che appaiono inutilmente eccessive e costose alla luce dei fenomeni legati ai cambiamenti climatici.
Questo tipo di strutture sta diventando non più sostenibile, anche economicamente e chissà dovremmo guardare invece a città che sono molto più leggere, che eventualmente si lasciano distruggere ma poi possono essere ricostruite molto rapidamente.
Che consigli daresti a studenti o laureati in architettura che hanno un interesse per il mondo della cooperazione internazionale ?
Consiglio di cominciare col guardarsi intorno, cercando progetti di volontariato sul campo, ma anche online, come le iniziative di Map For Future, oppure concorsi di architettura per lavorare a progetti in villaggi all’estero. Un’altra grossa opportunità è sicuramente rappresentata dal servizio civile. Tutte queste opzioni permettono di prendere dimestichezza con il mondo della cooperazione.
Poi per chi ha già una formazione di base si trovano diverse opportunità lavorative, se si è disposti a passare un certo periodo all’estero. È un’esperienza che consiglio assolutamente perché fare cooperazione vivendo sul campo, scontrarsi con una realtà molto per un pò di tempo è una bellissima palestra e un’esperienza molto entusiasmante.
Consiglio di guardare non solo al settore tradizionale dello sviluppo, ma anche al settore dell’aiuto umanitario ed emergenza, soprattutto nelle aree legate alla logistica o alla costruzione di campi rifugiati, che stanno crescendo e che anche se richiedono spesso percorsi formativi specifici, possono dare grandi soddisfazioni umane e professionali.