In gran parte del mondo l’agricoltura è femminile, eppure troppe donne contadine non riescono ad uscire dalla trappola della povertà. In molti contesti l’agricoltura di sussistenza costituisce per le donne solo un obbligo sociale ed un peso. L’agroecologia potrebbe cambiare le cose. Parliamo con Marika Sottile della sua ricerca sull’agroecologia come strumento di empowerment femminile in Guinea Bissau.
Perchè occuparti di agroecologia ed empowerment femminile?
Ero studentessa della magistrale “gestione delle organizzazioni del territorio”, dell’università di Trento. Mi sono candidata e sono stata selezionata per il programma TALETE Talenti e Territori. Si tratta di un Honours Programme, un percorso superiore di formazione complementare su cooperazione e interdipendenze globali, offerto dall’università in partenariato con il Centro per la cooperazione internazionale di Trento. Partecipare permette di svolgere la ricerca tesi ed un tirocinio post-laurea all’estero, in collaborazione con una o più organizzazioni.
È con i corsi di TALETE che ho scoperto l’agroecologia e mi ha subito affascinato, per l’approccio estremamente pratico, flessibile ma allo stesso tempo olistico, come strumento per la cooperazione internazionale. Così ho scelto di occuparmi di agroecologia nella mia tesi di laurea. Dato il tema, ho contattato Mani Tese ed è nata l’idea di analizzare l’agroecologia come strumento di sviluppo economico per le donne, focus del progetto Juntas, in Guinea-Bissau, implementato nella regione di Gabu.
Prima di conoscere questo progetto, non avevo mai riflettuto su quanto sia necessaria la generazione di un reddito per il rafforzamento personale e sociale di una donna. Avevo sempre concepito l’empowerment femminile come una presa di coscienza, un reclamare i propri diritti, qualcosa di più politico, ma ho capito che soprattutto in contesti rurali, bisogna considerare aspetti molto più pragmatici della vita delle donne.
Quali sono state le basi della ricerca?
Ho studiato quattro diverse comunità in cui gruppi di donne hanno gestito orti agroecologici comuni. L’obiettivo era commercializzare i prodotti e grazie ai proventi delle vendite, migliorare le proprie condizioni di vita. Ho intervistato 28 donne, che lavoravano in quattro orti diversi, a Djibatà, Coiada, Pansor e Nhapo Sintcham.
I principali riferimenti teorici che ho utilizzato per la mia ricerca sono: l’approccio delle capabilities di Amartya Sen e la teoria sull’empowerment femminile di Naila Kaaber.
Sen ci fa capire che lo sviluppo è un concetto multidimensionale, che non è basato solo sulla sfera economica, ma comunque il reddito è un fattore molto rilevante per le possibilità di crescita delle persone, soprattutto in condizioni di povertà materiale.
Kaaber dice che l’empowerment è strettamente legato ad una condizione di disempowerment, cioè una condizione socio-materiale di deprivazione. L’empowerment è un processo dinamico, attraverso il quale le donne acquisiscono risorse che permettono loro di “prendere la parola” o esprimere le proprie preferenze, e agency o la capacità di prendere delle decisioni, fare delle scelte di vita strategiche, per realizzare le proprie aspirazioni e ottenere i risultati desiderati.
Avere le risorse non garantisce di per sé i risultati, perché l’attivazione dell’agency è influenzata dal contesto in cui la donne vive, e da elementi che vanno dalle leggi vigenti ai ruoli di genere.
Per la ricerca ho utilizzato due strumenti analitici, uno è il Characterization of Agroecological Transition o CAET per valutare gli orti, e l’intervista alle partecipanti, che deriva dall’ Women’s Empowerment in Agriculture Index o indice WEAI. Entrambi fanno parte del Tool for Agroecology Performance Evaluation (TAPE), creato dalla FAO per valutare le performance dei sistemi agroalimentari.
Con il CAET ho misurato il livello di transizione agroecologica degli orti. I risultati sono stati elevatissimi, molto vicini al massimo livello di transizione ecologica. Dobbiamo ovviamente considerare che si tratta di piccole comunità che possono reperire e gestire le risorse per gli orti in maniera molto semplice, a livello locale.
Dato che il WEAI è un indice quantitativo abbastanza complesso, io sulla base dei suoi criteri di valutazione, ho creato un’intervista semi-strutturata per le partecipanti al progetto Juntas.
Perchè e come l’agroecologia può diventare uno strumento di empowerment femminile?
Per le donne di Gabu con cui ho parlato empowerment significa avere dei soldi per poter contribuire economicamente ai fabbisogni familiari. Quando chiedevo: “il tuo potere decisionale all’interno della famiglia è migliorato?” La risposta era sempre positiva.
Mi dicevano che il loro potere era migliorato nella misura in cui avevano un reddito proprio. Perché avendo un reddito potevano decidere come distribuirlo a livello familiare, spesso coprendo quelle spese necessarie ma “trascurate” dai mariti.
La capacità di contribuzione alle necessità della famiglia è per le intervistate una prima fonte di realizzazione. Perché porta ad un miglioramento della capacità decisionale, stabilendo per la prima volta un controllo sull’utilizzo delle risorse per sé e i propri cari.
Le donne coinvolte nel progetto, avevano già tutte un piccolo orto domestico e già vendevano qualcosa al mercato. Praticavano solamente un’agricoltura di sussistenza, vendendo il poco surplus che avevano, e l’orto era considerato solo un’estensione del lavoro familiare delle donne.
Con il progetto non solo hanno acquisito delle competenze e hanno avuto degli spazi per produrre con la finalità di vendere, ma è anche cambiato qualcosa nella percezione delle comunità di appartenenza. Ora che le donne hanno una buona capacità produttiva, e partecipano ad un tipo di agricoltura commerciale, si riconsidera la loro attività e il loro stesso apporto e valore all’interno della famiglia.
Nel caso del progetto le risorse a disposizione delle partecipanti per il loro processo di empowerment includevano sementi, tecnologie agricole alla loro portata, (per esempio escludendo macchinari pesanti poco utilizzabili da loro), gli strumenti per l’orto comunitario e gli orti stessi, ma anche la formazione e la “valorizzazione” delle donne in agricoltura e nel commercio, che il progetto ha innescato.
Le tecniche agroecologiche adottate negli orti sono: l’utilizzo di repellenti e fertilizzanti naturali, consociazione tra colture, diversificazione colturale, parcellizzazione e spaziamento tra le varietà.
La preparazione e l’utilizzo di composti naturali per fertilizzare il terreno ed evitare parassiti, preparati con ingredienti facilmente reperibili e a costo basso o nullo (come letame animale, aglio o neem), è stata la “risorsa catalizzatrice” dell’empowerment femminile.
Tutte le donne intervistate considerano il compost naturale la tecnica più importante appresa, perchè permette di risparmiare denaro e aumenta quantità e qualità dei prodotti coltivati.
Si può dire inoltre che le partecipanti al progetto identificano l’agroecologia stessa proprio con questa tecnica.
In conclusione, possiamo dire che a Gabu l’agroecologia supporta l’empowerment femminile con la riduzione degli input chimici, l’aumento dei redditi delle donne, e il conseguente miglioramento della capacità decisionale all’interno della famiglia.
Com’è stata a livello personale l’esperienza della ricerca tesi sul campo?
Appena arrivata in Guinea Bissau sono subito andata nella zona rurale che era l’area di intervento del progetto, approfittando a livello logistico di altre attività parallele che erano state programmate per quel periodo.
La sfida più grande probabilmente è stata proprio fare interviste e raccogliere dati appena arrivata nel Paese, conoscendo ancora poco il contesto. Molte delle risposte ricevute le ho comprese appieno solo nelle settimane seguenti, quando ero ormai molto più consapevole del progetto e soprattutto del contesto di Gabu.
Un’altra sfida è stata dal punto di vista linguistico, perché abbiamo dovuto fare diversi livelli di traduzione. Io parlavo portoghese, alcune donne parlavano in creolo, del quale dopo i primi giorni riuscivo a comprendere qualcosa, ma la maggior parte parlava solo altre lingue come fula o mandinga. Mi facevano da traduttori di volta in volta gli animatori responsabili degli orti, che mi hanno aiutato moltissimo anche a contestualizzare le risposte.
Fare una ricerca tesi sul campo è stato sicuramente emozionante. Quelli che in un primo momento mi sembravano ostacoli, sono poi risultati i punti di forza della ricerca.